IL DETRAINING AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

IL DETRAINING AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

"Pain is inevitabile, suffering is optional”[1], in fondo anche nelle grandi difficoltà la possibilità di farcela o meno è ad esclusiva discrezione di ogni individuo, parafrasando una famosa frase dello scrittore-maratoneta Haruki Murakami, associata ad una sorta di mantra, quello che contraddistingue la straordinaria determinazione di un maratoneta, ma che è insito nel DNA di ogni runner, temprato nel resistere alla fatica da quella maniacale e meravigliosa disciplina chiamata corsa. Mi piace guardare lontano, anche in questo tempo così complicato, dove tutti noi siamo chiamati a “resistere”, costretti a ridimensionare le nostre consuete abitudini, salvaguardando il futuro, per vincere la maratona più importante, quella della vita. Detto ciò, nonostante le priorità siano assolutamente altre, è difficile nascondere il disappunto e la preoccupazione di chi a vari livelli, abituato ogni giorno o quasi, a coprire il suo buon quantitativo di chilometri di corsa, è costretto a un periodo di stop più o meno lungo, completamente privato di un irrinunciabile sensazione di benessere, con la spiacevole  prospettiva di una condizione di forma destinata inesorabilmente a scadere, il tutto riconducibile al  “famigerato” concetto di disallenamento, in inglese detraining. La domanda a questo punto sorge spontanea: quanto bisogna preoccuparsi? Nemmeno tanto direi, salvo dover affrontare una preparazione preolimpica in vista di Tokio, con un concreto rischio di rinvio, o in caso contrario mantenere il presupposto di rimanere più lontani possibile dal divano, nonostante i continui spot a tema, e dal frigorifero! Con il termine detraining si definisce la perdita parziale o totale degli adattamenti indotti dall’allenamento, in risposta alla riduzione dell’allenamento stesso oppure a una significativa diminuzione del carico di allenamento[2]. Il cuore, come gli altri muscoli dell’organismo, si rafforza con l’allenamento di resistenza, mentre l’inattività può portare a un suo significativo decondizionamento insieme a quello del sistema cardiovascolare. A proposito del divano, l’esempio più critico è rappresentato da uno studio piuttosto datato, condotto su soggetti costretti a lunghi periodi di riposo a letto; non era consentito loro di alzarsi e l’attività fisica era ridotta assolutamente al minimo (Saltin B. et al., 1968). La funzione cardiovascolare venne valutata quando i soggetti svolgevano un carico di lavoro costante, sia prima sia dopo i 20 giorni di riposo a letto. Le modificazioni vascolari associate al riposo al letto comprendevano: un notevole aumento della frequenza cardiaca sub massimale, una diminuzione del 25% del volume di scarica sistolica[3] sub massimale, stessa percentuale di riduzione per la massima gittata cardiaca[4], e un decremento del 27% del massimo consumo di ossigeno (VO2 max)[5], combinati alla diminuzione del volume cardiaco, della massa sanguigna, del volume plasmatico e della contrattilità ventricolare. E’ interessante notare che, tra i soggetti studiati, i meglio condizionati (quelli che avevano i VO2 max più alti) evidenziarono un abbassamento del VO2 max più rilevante rispetto ai meno condizionati. Inoltre, i soggetti non allenati hanno riacquistato il livello di condizionamento iniziale nell’arco di dieci giorni, mentre ci sono voluti quaranta giorni circa per la ripresa completa dei soggetti bene allenati. Risultati simili sono emersi da uno studio più recente di Pedlar CR et al. (2017), con l’analisi di 24 corridori amatoriali, che reduci da 18 settimane di allenamento e dopo aver terminato la maratona di Boston 2016, sono stati sottoposti ad un protocollo di detraining di 8 settimane, che prevedeva due ore di allenamento blando settimanali. In merito agli atleti allenati, invece, Drinkwater e Horvath (1972), osservando sette atlete che praticavano atletica leggera alla fine della stagione agonistica e poi di nuovo 3 mesi dopo la fine della preparazione, in cui effettuarono una normale attività fisica (comprese le sessioni di educazione fisica con le coetanee a scuola), riscontrarono una diminuzione del VO2 max del 15,5%, suffragando la teoria che nelle modificazioni della prestazione di endurance nei soggetti allenati, durante i periodi di inattività, la riduzione della resistenza cardiorespiratoria è decisamente più rilevante rispetto a quelle di potenza e resistenza muscolare per lo stesso periodo di inattività. Tali peggioramenti, specie quelli della resistenza prolungata rispetto a quella di breve durata, diventano indicativi quando la riduzione di frequenza e durata dell’allenamento è pari a 2/3 circa del carico normale, alcuni studi dimostrano che basta una riduzione di appena 1/3. Vista la rapidità di questi peggioramenti, un livello accettabile di allenamento è necessario per prevenire la perdita dei suoi benefici in caso d’interruzione, i risultati delle ricerche[6] indicano che, per mantenere il condizionamento aerobico ci vogliono minimo tre sedute di allenamento a settimana, a un’intensità di almeno il 70% del VO2 max. Anche la forza e la potenza muscolari si riducono quando un atleta interrompe l’allenamento, con modificazioni relativamente piccole nel corso dei primi mesi. L’atrofia muscolare causa una notevole diminuzione della massa e del contenuto di acqua, il che potrebbe spiegare in parte il deterioramento della capacità di sviluppare la massima tensione muscolare. Quando i muscoli non sono utilizzati, si riduce la frequenza della stimolazione nervosa ed il normale reclutamento delle fibre viene compromesso. I risultati delle ricerche dimostrano che, terminato un periodo di allenamento, un atleta può mantenere il livello di forza e di potenza muscolare raggiunto per sei settimane. Se l’atleta continua ad allenarsi saltuariamente, persino una volta ogni 10-14 giorni, riesce generalmente a mantenere detti miglioramenti per un periodo più lungo. Evidentemente, al muscolo basta uno stimolo minimo per conservare forza, potenza e dimensioni precedentemente raggiunti con l’allenamento, ovvero utilizzare una sorta di “memoria” muscolare, come descritto in un interessante review[7] di Kristian Gundersen (2016). La prestazione di resistenza muscolare si riduce dopo solo due settimane di inattività. Dati riferiti a nuotatori indicano che, nei soggetti in disallenamento, il potenziale ossidativo dei muscoli diminuisce molto più rapidamente rispetto al massimo consumo di ossigeno del particolare soggetto, a scapito della capacità di resistenza sub massimale. Una modificazione assai evidente che subisce il muscolo di soggetti allenati nel corso del detraining, riguarda il contenuto delle scorte di glicogeno, è stato osservato che queste diminuiscono del 40% in quattro settimane[8]. Il miglioramento della velocità, e dell’agilità ottenuto con l’allenamento è inferiore a quello di forza, potenza, resistenza muscolare, flessibilità e resistenza cardiorespiratoria; la perdita di velocità ed agilità in seguito all’inattività è, quindi, relativamente bassa. Inoltre una quantità di allenamento molto contenuta è sufficiente a mantenere il massimo livello di entrambe. La flessibilità, invece, si perde rapidamente con un periodo di inattività; va quindi esercitata tutto l’anno, con l’ausilio degli esercizi di stretching che non vanno mai trascurati, in quanto aumenterebbe la predisposizione ad infortuni anche gravi. In conclusione, per sopperire ai lunghi periodi di sosta forzata, ci si può organizzare autonomamente anche in casa, mantenendo un livello adeguato di fitness, grazie all’utilizzo di mezzi alternativi, come circuit training, tapis roulant, rulli per allenamento in bici, con l’ausilio dei propri tecnici, di testi specifici, o dei numerosi tutorial che circolano in rete, con l’obiettivo principale di sincronizzare corpo e mente a una visione positiva della vita, sempre e comunque.

[1] Murakami H., 2007. L’arte di correre. Einaudi Super ET.

[2] Mujika I., Padilla S. (2000), Detraining: Loss of training-induced physiological and performance adaptations. Parte I e Parte II, Sports Medicine, 30, 79-87, 145-154.

[3] Quantità di sangue espulso dal ventricolo sinistro durante la contrazione cardiaca.

[4] Volume di sangue pompato fuori dal cuore in un minuto. E’ il prodotto tra frequenza cardiaca e volume di scarica sistolica.

[5] Massima capacità di consumo di ossigeno dell’organismo durante l’esercizio massimale. Considerato come il miglior indice “unico” della resistenza cardiorespiratoria e dell’efficienza aerobica, utile a prevedere buone prestazioni nelle discipline di resistenza.

[6] Hickson R.C., Foster C., Pollock M.L., Galassi T.M., Rich S. (1985), Reduced training intensities and loss of aerobic power, endurance, and cardiac growth, Journal of Applied Physiology, 58, 492-499.

[7] Kristian Gundersen (2016), Muscle memory and new cellular model for muscle atrophy and  hypertrophy, Journal of Experimental Biology, Review, 219, 235-242. Doi:10.1242/jeb.124495.

[8] Costil D.L. , Fink W.J., Hargreaves M., King D.S., Thomas R., Fielding R. (1985), Metabolic caracteristics of skeletal muscle during detraining from competitive swimming, Medicine and Science in Sport and Exercise, 17, 339-343.

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