PANETTA, LEONE E L’ATLETICA BELLIGERANTE
Un celebre filosofo-economista tedesco dell’ottocento, nella prefazione di un suo trattato poneva il quesito: “È l’essere sociale che determina la coscienza, oppure è la coscienza che determina l’essere sociale?”. Le argomentazioni sviluppate dall’autore a sostegno delle sue tesi, tendevano ad avvalorare la prima ipotesi. Un secolo dopo, in due lembi opposti di terra calabrese, agli inizi degli anni ottanta e poi dei novanta, quell’assioma, convenuto per lungo tempo da certa intellighenzia raffinata, fu sconfessato in ambito sportivo. Storicamente la capacità produttiva di un territorio condiziona il tessuto sociale in cui agiscono gli individui, influenzandone inevitabilmente modo di essere e di pensare. Quando il primo giorno di gennaio del 1977 a Siderno Marina si confrontarono, in modo del tutto inconscio, in un’anarchica marcialonga di paese, due talentuose acerbe vigorie fisiche predestinate ad essere calamitate dall’atletica d’endurance, quel principio socio economico si arricchì di un’inedita variabile. Se le Adidas sl 76 regalate da Giuseppe Panetta al figlio quattordicenne, sdoganarono il divenire di un ragazzo destinato con buona probabilità in età adulta alla produzione artigianale di leccornie, proiettandolo nel mondo dello sport professionistico, nessuna casualità di contro agevolò l’inclinazione di Benito Belligerante, l’indomito antagonista di Francesco Panetta durante la sua prima gara della vita. Il susseguirsi di scatti e accelerate nel tratto finale della competizione, asserì che quei luoghi avevano partorito contemporaneamente ben due talenti della corsa. Il più astuto tatticamente spiccò il volo verso una nuova dimensione, atterrando a diciotto anni sotto il cielo annebbiato di una città importante, il più assoggettato dal bisogno restò sulle sponde dello Jonio ad annodare ferro nei cantieri edili, dissolvendo così quel talento che li accumunava. Due lustri più tardi, su suolo bruzio, un altro cavallo di razza dall’istinto country, identificato sotto una scorza da calciatore, venne catapultato dalla testa delle corse studentesche, all’ovale in tartan cittadino. La mattina del 1 novembre del 1991 Ernesto Leone imboccò l’autostrada con la sua Fiat uno fire bianca, velocizzata dalla quinta marcia appena installata e un tarlo in testa. Seduto sul lato passeggero il suo secondogenito appena maggiorenne, da affidare al gruppo sportivo del corpo forestale dello stato della capitale. Probabilmente gli sbalordimenti e le sensazioni provate da Maurizio Leone dopo l’assegnazione all’imbrunire di scarponi, branda e armadietto, non si discostarono molto da quanto patito dieci anni prima da Francesco Panetta, accovacciato su un gradino di un portone in via Bassini a Milano, ad aspettare istruzioni su dove andare a dormire. Metabolizzati aldilà dei vetri delle nuove dimore gli insoliti scorci d’orizzonte, a medicare la distanza affettiva, un pugno di gettoni e una cabina telefonica. Un distacco precoce che avviò nella psiche dei due top calabri, processi emozionali così forti e tempranti da moltiplicarne caparbia, testardaggine ed agonismo belligerante, tanto da stampargli in faccia un perenne ghigno tipo nota segnaletica. Sviluppata la carriera agonistica da runners d’élite, ognuna tarata sulla propria cilindrata, l’intensità di quel vivere perpetuamente col cuore in gola aveva accelerato un processo di maturazione interiore, aggrovigliato da un caos d’emozioni ritmate dal ticchettio di un cronometro. Vent’anni da fermare il tempo. Vent’anni d’immortalità. Ammainate le vele della notorietà, s’avvinghiò su Leone un richiamo viscerale che lo attirò al natio tetto sgombro dal grigio monossido di carbonio padano, mentre già Panetta commentava in tv l’atletica noir, nel senso cromatico del termine. L’essenza del postulato del filosofo tedesco quando coglie non ha scadenza, marchia, impregna, pompa il sangue a mille. Se non si è ancora giunti nella fase della meditazione in pantofole, chi ha vissuto quel tipo di stagioni ad alto voltaggio nella propria vita, agisce ostinato perché si sente in dovere di restituire un dono ricevuto tentando di creare un modello replicabile, calibrato alle new generation, capace di risvegliare gli impulsi ancestrali del movimento umano. Mission impossible in terra di Calabria? Per Francesco Panetta e Maurizio Leone non è stato così. La ricerca oggi è attiva ed orientata ad intercettare e tramutare potenziali campioni d’aperitivo in esseri coscienti, a cui marcare un tatuaggio emotivo indelebile, accendendo in loro l’istinto innato della corsa.
Francesco Panetta e Maurizio Leone negli anni '90